venerdì 24 settembre 2010

MissVivy

Quest'anno ho pensato molto a MissVivy. MissVivy diceva che era tutta colpa di Milano.

E' stato un anno molto difficile, questo che si sta trascinando lentamente alla fine. Ora va un po' meglio, altrimenti non sarei qui a scriverlo. Non va benissimo, ma va senz'altro meglio.
Quest'anno qui, che ora anche se è ancora settembre già è come se fosse passato, è iniziato con il mio primo vero lutto ed è finito con un documentario su Charles Bukowski. Ma voi lo sapevate che Bukowski aveva l'acne? Io no. Non sapevo proprio nulla di Bukowski: ho letto tre libri suoi, mi sono piaciuti molto ma è morta lì. Comunque, mentre stavo lì ad ascoltare quel tizio vecchio e irrimediabilmente brutto parlare di ciò che aveva voluto e ciò che non aveva voluto, mi sono improvvisamente ricordata di ciò che io avevo voluto e di ciò che non avevo voluto, e le cose sono tornate al loro posto.

Perché non è solo una questione di You can't always get what you want, canzone che peraltro non conoscevo prima del Dr. House. Si tratta più che altro di aver fatto delle scelte, un sacco di tempo fa, e queste scelte non determinano solo cosa faccio e cosa possiedo, ma soprattutto chi sono.
L'unico problema è che si tratta di scelte che ho fatto davvero molto, molto tempo fa, quando il mio unico progetto a lungo termine era quello di morire a breve termine.

Quando avevo 10 anni, ero convinta che sarei morta prima dei 18. Quando ho compiuto 17 anni mi sono accorta con disappunto che, nonostante fosse chiaro che non era plausibile, anzi era platealmente ingiusto e offensivo che io continuassi a vivere, il cosmo non sembrava dare segno di volermi espellere.
(sì perché mica pianificavo un suicidio, nonostante quello sia un pensiero che da lì in avanti ho sempre avuto e continuamente ho: m'immaginavo più una cosa di selezione naturale, tipo che un giorno, finalmente, la grande divinità volgesse lo sguardo su di me ed esclamasse “ma cazzo, e quest'obbrobrio che ci fa qui? via subito! raus!” e così puff!, fine, tana libera tutti)
Così niente, mi sono detta che aveva più senso fare finta di niente, continuare a fare le cose che dovevano essere fatte, rimanere calma e paziente, tanto quanto ancora avrei dovuto vivere? Fino ai 22, 25 anni al massimo? Potevo farcela.
Poi una invece arriva ai 30, totalmente spiazzata. Anche perché nel frattempo sono anche successe altre cose, per esempio l'amore, una casetta da arredare, un lavoro o più di uno, tutte cose che per loro stessa natura richiedono non dico per forza una progettualità, ma almeno un tipo di orizzonte mentale che non sia “va beh, tanto tra un paio d'ore si muore, no?”. E con i trent'anni accadono altre cose, alcune dentro di te, totalmente inaspettate e indesiderate, ma che si siedono lì dentro la tua pancia soddisfatte e paciose come se quello fosse da sempre il loro posto; e altre accadono intorno a te, le vite degli altri diciamo, ma ormai è difficile pensarli come “altri” dato che ti stanno così vicino, e a volte ti somigliano un sacco, se non fosse per quelle scelte che, loro no, non hanno fatto a 10 anni.

Allora ripenso a MissVivy. La chiamavamo così - o meglio così aveva iniziato a chiamarla S., ché io a dire il vero odio i soprannomi - perché era sempre perfetta, come una bambola, come una dama. Sempre impeccabile nel suo stile anni Ottanta, la chioma color Cindy Lauper, e il trucco immacolato. Aveva, questo me lo ricorderò in eterno, dei fogliettini con cui tamponarsi il volto, che toglievano l'unto ma non il trucco. Cose così.
Nonostante si confidasse con noi, di MissVivy non sapevamo quasi niente, perché lei sapeva unire perfettamente la capacità tutta genovese di eludere le domande e non lasciar trapelare mai nulla di veramente intimo, con la placida serenità di chi ormai ne è fuori e preferirebbe non rivangare il passato. Non mi sentivo del tutto a mio agio con lei, un po' per quella sua perfezione, un po' perché mi sembrava troppo lontana per età (a quel tempo, 5 anni di differenza erano un mondo) e per stato sociale, lei così immersa in quel mondo piccolo borghese di botteghe, quartieri residenziali e cosmetici di marca. Però un pomeriggio mi diede un passaggio, e parlammo un poco.
Mi raccontò che tutto era iniziato a Milano, dove era andata per inseguire un sogno e da dove era fuggita nel fallimento e nella disperazione. Milano città di ragazze bellissime, e di competizione, e di perfidia, e del non essere mai abbastanza, e del non essere mai.
Sinceramente, non la seguivo. A Milano avevo studiato e quello che mi ricordavo erano concerti, centri sociali, locali lesbici, mostre gratis, incontri culturali, manifestazioni di piazza, e una grande città dove ogni diversità poteva trovare la propria somiglianza. Non ricordavo competizione, semmai disordine, ridondanza e, alla fine, superficialità.
MissVivy era così placida, capii in quel breve viaggio in macchina dal ponente al levante, perché era sotto Prozac da ormai 7 anni. Per me il Prozac era solo un simbolo, una battuta, e non avevo mai conosciuto qualcuno che ne fosse dipendente. MissVivy mi disse che era l'unica medicina che era riuscita a farla tornare a vivere, e dato che non aveva la minima intenzione di abbandonarlo mai la questione della dipendenza non si poneva, non più di quanto si pone la questione della dipendenza dall'acqua, o dal sonno.

Quest'anno ho incontrato la Milano di cui mi parlava la mia MissVivy. Non proprio la stessa, certo, ma ho finalmente capito cosa intendesse lei. In tutti gli anni che ho passato qui ho odiato Milano per un fantastiliardo di motivi: la pianta circolare, l'assenza del mare, l'accento della gente, le zanzare, l'umidità, lo smog che entra in casa, la bruttezza della periferia, l'antipatia del centro, l'ostentata ricchezza, il costo degli affitti, i locali da fighetti, gli eventi indie, il rumore, gli aperitivi a otto euro - continuate voi. E mille volte ho maledetto il destino che mi ha inchiodata qui, quando io m'immaginavo a finire (presto) la mia vita in Campo Pisano o in Salita degli Angeli.
Ma pian piano, quasi con sorpresa, mi sono rassegnata, poi abituata, e ora sono quasi contenta; tutti quei motivi di odio, a volte non li noto più, a volte non sono più tali, a volte alzo le spalle e li sopporto con eleganza.
Però quest'anno Milano mi ha mostrato una faccia diversa, una malvagità più profonda, una capacità inaspettata di tenerti in mezzo e puntare il dito contro di te, di confonderti, di mortificarti al punto da farti dimenticare chi sei.

Quindi, scusami MissVivy. Mentre mi raccontavi del tuo male, non ti ho capita; ho pensato che tu fossi superficiale, troppo influenzabile, che un po' te la fossi cercata scegliendo male ambienti e compagnie. Il tuo fallimento resta tale, e lo so perché è il mio; e il tuo Prozac è qualcosa di cui non ho bisogno grazie a chi ho vicino, non certo per mio merito.
Tu sei tornata a casa, a guarire, annoiarti e rimpiangere la tua occasione. Io rimango qui, alzo gli scudi deflettori, mi tengo stretta alle cose che so di me e che non posso permettere che mi riportino via, e continuo ad aspettare, calma e paziente.

3 commenti:

MissVivy ha detto...

Ma quanto sei stronza...

Anonimo ha detto...

Everyday,
I think about dying.
About disease, starvation,
violence, terrorism, war,
the end of the world.

It helps
keep my mind off things.
(Survivor, R.McGough).

Non sto sottovalutando. Al contrario. Solo, sono senza parole. Osservo la tristezza profonda. E ti mando questa poesia come una specie di regalo, di feroce ironia che è anche, in qualche modo, delicata. Come te.

Hugo Weaving ha detto...

Brava missvivy oramai ci appartieni.