giovedì 31 marzo 2011

Bullismo

Parecchie settimane fa, mi verrebbe da dire addirittura parecchi mesi fa, sono arrivata davanti al cancello del cortile/garage dove tengo la bicicletta, sono entrata, sono arrivata davanti al mio prezioso mezzo di trasporto e ho visto che il telo con cui copro il medesimo era decorato con un paio di fori di inequivocabile provenienza tabagista.

Una persona normale avrebbe inveito contro la divinità, l'Uomo, l'inciviltà contemporanea o più probabilmente il multiculturalismo.
A me è venuto da vomitare.
Ma ho avuto anche una sorta di epifania, o meglio, un momento di lucidità con il quale sto facendo i conti da settimane, o addirittura mesi; la lucidità di rendermi conto che ciò che mi provocava nausea non era la rabbia per il telo rovinato o lo sconforto davanti alla stronzaggine dei miei vicini, bensì la vergogna. Un'eruzione lavica di vergogna che aveva origine al centro del petto e si espandeva, scottandomi, un po' dappertutto, fino a farmi bruciare le orecchie.
E un pensiero: “Basta, ti prego. Non di nuovo, non ancora”.

C'è una considerevole distanza tra le finestre del palazzo che s'affaccia sul cortile e la mia bicicletta: chiunque abbia lanciato i mozziconi deve aver voluto colpirla. Non c'è nulla di intrinsecamente malvagio nell'atto: è anzi profondamente umano, anche se probabilmente più maschile, il desiderio di colpire un obiettivo, di fare centro/rete quando si getta qualcosa. Chi non l'ha mai fatto? Appunto. È altrettanto umano, anche se non lodevole, non fermarsi a pensare sulle precise conseguenze di un'azione compiuta senza pensare: la soddisfazione immediata non regge di fronte a considerazioni e obiettivi di lungo termine, altrimenti saremmo tutti sani, tonici e realizzati.
Però, ecco, l'hanno fatto apposta – e magari, volevano proprio danneggiare il mio telo. Forse ce l'hanno con me. Cosa posso fare? Non posso fare nulla, se non fingere che non sia successo niente, non mostrare quanto ci sono rimasta male, e sperare che la smettano.

Quella mattina, mentre salivo sulla bici, mi sono resa conto di essere una vittima di bullismo. Cioè, ovviamente ricordavo di esserlo stata: intendo dire che mi sono resa conto di non aver mai smesso di esserlo. Il bullismo - le persecuzioni, le prese in giro, la violenza fisica spesso minacciata e a volte subita - mi ha resa una vittima per sempre.

Non stupisce nessuno, giusto? Chiunque mi conosca anche un po', compresi i compari di blog/tumblr/friendfeed, non penso avrebbe alcuna difficoltà a immaginarmi come vittima di qualcosa – so di averlo scritto in fronte, “VITTIMA”, di averlo inciso su ogni nervo, di comunicarlo con ogni gesto e parola. Il fatto è che sono stata vittima di così tante cose e persone, che non ho mai stilato una classifica. Ma mentre pedalavo verso il lavoro, ho capito che il bullismo aveva vinto il primo premio, o almeno era sul podio.

E come molte vittime, ho finito per pensare che fosse persino giusto. Me ne sono andata in giro affermando che alla fin fine il bullismo “ti sveglia”; ti porta a sviluppare una personalità sufficientemente forte da renderti indipendente dalla pressione sociale e dal giudizio altrui; rompe il consolatorio e oppiaceo incanto del mondo governato da giustizia, bontà e merito dove insegnanti e genitori hanno la sfacciata pretesa di far vivere i bambini; e infine ti insegna la necessità di saperti difendere anche fisicamente, cosa che non ha certo risvolti negativi.
Quante cazzate.
Piuttosto di ammettere di aver vissuto un'ingiustizia non riparabile, ho preferito sposare la logica del carnefice. Un meccanismo così ovvio e imbecille che riconoscerlo non fa che duplicare la vergogna.

La chiamo timidezza, insicurezza, introversione, asocialità - ma perché non chiamarla, più semplicemente, paura degli altri? Paura, angoscia, ansia, disagio, a seconda delle occasioni. Se cammino sul marciapiede e in lontananza vedo un gruppo di ragazzi che sta chiacchierando o fumando fuori da un locale, l'idea di dover passare tra di loro mi spaventa. Mi diranno qualcosa? E se decidono di non farmi passare? E se si mettono a ridere di me?
Il gruppo è un'unità sociale che mi terrorizza. La maggior parte delle persone, o almeno una proporzione sufficientemente nutrita, non sono particolarmente cattive, se prese una per una. Ma una volta riunite in un gruppo, cambiano. Si fomentano a vicenda. A nessuno verrebbe in mente, se sta fumando da solo per strada, di farmi uno sgambetto mentre passo – ma se è con amici? Se vuole far vedere ai suoi coetanei quanto è figo e quanto se ne frega? Se viene sfidato a farlo dal capetto della sua compagnia? Se sente il bisogno di celebrare la compattezza e la superiorità della sua unità sociale con il sacrificio rituale di un non-membro?
D'altronde, non posso nemmeno cambiare strada. Anzi, se deviassi il mio percorso in modo troppo palese, quelli avvertirebbero l'odore della mia paura e potrebbero sentirsi invitati ad attaccarmi, quando magari se passassi dritta non si accorgerebbero della mia presenza. Che fare? Fai finta di nulla. Cammina veloce, ma non troppo veloce, bensì come se dovessi andare da qualche parte, come se qualcuno ti aspettasse, come se non fossi realmente sola ma idealmente insieme alla proiezione della persona che ti sta aspettando. Sguardo basso o perso in un indefinito orizzonte: devi dare l'impressione di essere assorta in altri pensieri, di non averli nemmeno notati, di essere troppo indaffarata o troppo distratta per sentire quello che ti dicono, se ti diranno qualcosa - meglio se hai gli auricolari, così puoi far finta di non averli sentiti perché ascoltavi della musica – dato che se ti insultano in qualche modo, la cosa migliore è non mostrare di aver sentito.

Avete idea di quanti gruppi di persone a prevalenza maschile si incontrano durante la giornata, se vi muovete con i mezzi pubblici? Per quanto mi riguarda, sempre uno più di quanto riesca a sopportare. Non che ogni volta io vada in panico: ho più di trent'anni, spesso riesco a razionalizzare e comprendere che non c'è alcun reale pericolo, oppure semplicemente sono davvero distratta e con la mente rivolta ad altro. Ma sì, capita; e se parliamo di disagio, sì, capita sempre.

Perché non sto parlando di sesso? Un gruppo di maschi, una femmina che ci passa vicino tutta timorosa - non sarebbe più normale sentirsi minacciata da attenzioni sgradite, piuttosto che dall'ipotesi di derisioni e spintoni?
Sì ma, ecco, non vedo alcuna differenza; non ci sono mai riuscita. Molti anni fa me ne andavo in giro la notte, da sola, tagliando per giardinetti pubblici poco illuminati e mal frequentati, e non pensavo di rischiare alcunché perché ero convinta di essere troppo brutta per attirare l'attenzione sessuale di chiunque. Quando ho capito che non funzionava così, semplicemente il senso di minaccia si è arricchito, ma non è molto cambiato. Sapere che, in quanto donna, sono permanentemente definita come oggetto sessuale e giudicata come tale, passando o meno un esame a cui non ho scelto di presentarmi... in che modo si distingue dal bullismo?
Designata come oggetto sessuale, designata come oggetto di violenza: si tratta sempre di una deumanizzazione in cui non ho voce in capitolo, a cui non sono in grado di oppormi.

“Sta' dritta con la testa”, mi rimproverava mia madre per via della mia abitudine a guardare in basso mentre cammino. “Ehi, ma hai visto quello lì che è passato com'era conciato? Figurarsi, tu non vedi mai niente vero?” - no, non vedo niente. Potrei anche andarmene in giro senza occhiali, se non fosse che non riuscirei a leggere il numero del tram. Non guardo nessuno. Sono così abituata a guardare per terra o verso un punto dell'orizzonte, sono così abituata a far finta di nulla, a badare affinché il mio sguardo non incroci quello altrui, che ho difficoltà a mettere a fuoco le persone. Posso incontrarvi in un corridoio ogni giorno per un anno e non riuscire a fare una descrizione del vostro volto. Non riconosco i miei vicini di casa se li incontro fuori dal condominio; a volte, qualcuno mi saluta per la strada, ma non ho la minima idea di chi sia. “Scusa, sono pessima a ricordare le facce”.

Non c'è un motivo preciso per cui si diventa vittima. Ho conosciuto ragazze più brutte, più sfigate, più introverse di me, a cui però non è capitato. Non so generalizzare, ma dato che ci ho pensato molto, so perché lo ero io.
Perché ero bruttina, ma non avevo degli handicap tali da far sentire meschino chi se la prendeva con me. Perché ero abbastanza intelligente da rendermi conto, con precisione, di quanto stava accadendo, e assaporare ogni stilla di umiliazione, e permettere agli altri di assaporare ogni stilla di trionfo. Perché ero sola, e non avevo fratelli maggiori a difendermi, né genitori in grado di incutere timore ai miei coetanei. Perché sapevo di essere sola. Perché pensavo che i miei genitori fossero troppo deboli per difendermi, dato che erano indifesi a loro volta davanti a chi si approfittava di loro. Perché ero più povera degli altri, non abbastanza da suscitare compassione o imbarazzo ma a sufficienza per indossare vestiti inopportuni e per non conoscere come si vive. Perché ero introversa, mi piaceva starmene per conto mio a leggere e fantasticare ed era evidente il misto di invidia e di disprezzo con cui guardavo gli altri alle prese con attività del tutto diverse. Perché sono sensibile e permalosa, per cui do un sacco di soddisfazione, soprattutto in ragione del fatto che non so nascondere le emozioni. Perché ero fiduciosa ed entusiasta, e non avevo alcun filtro a impedirmi di esprimere il mio attaccamento agli altri, a ridere forte e a dire quanto ero felice.
Oggi sono sardonica, fredda e rido sempre con la mano davanti alla bocca, per non mostrare i miei brutti denti. Il mio vestito di cinismo e sarcasmo conquista le amiche, ma chi mi ama, lo fa per quando sono fiduciosa ed entusiasta, per quando rido forte.

Non c'è una morale a questo post, e non c'è nemmeno una conclusione. L'ho scritto per fare penitenza, pensando a tutte le volte in cui ho detto e ho scritto che il bullismo “non è niente di che”, e magari la vittima se le va a cercare, e un po' se lo merita pure.
Ci sarebbe qui spazio per tutta una serie di considerazioni, queste sì davvero sconfortanti, sugli effetti a lungo termine e soprattutto sulle ricadute su chi mi sta vicino. Per esempio, sapete di cosa mi ringrazia più spesso la gente? Di aver insegnato loro il distacco dagli altri. Di aver messo in discussione la natura di rapporti di amicizia, amore, parentela, e di aver installato il dubbio sulla necessarietà di certi legami. Non è spaventoso? Ho l'impressione di spargere freddezza, disillusione, quando non rancore e abbandono.
Ho scambiato per libertà di pensiero e autonomia ciò che è più propriamente solitudine, paura degli altri e paura dei legami con gli altri, e colpevolmente ho lasciato che gli altri mi attribuissero tali doti, invece di farmi riconoscere come ciò che sono, ossia un'avvizzita misantropa.
Allora diciamo che la morale potrebbe essere questa: la gente danneggiata, che come sappiamo è pericolosa, non dovrebbe essere scelta come confidente, e soprattutto dovrebbe imparare a farsi una gran palata di cazzi suoi.










(per scacciare la malinconia, vi prometto a breve - giuro! - un post frizzante ed entusiasta su un'irritante canzone macedone. stay tuned!)

3 commenti:

Ospite (fisso) ha detto...

Sono qui per dirti solo una cosa - e allora te la dico, in punta di piedi. Il tuo cinismo è divertente, ma quel che seduce è la tua ironia, intrisa di dolcezza, e gli sprazzi di sole che hai quando ridi, anche tra le parole.

E il tuo post mi solleva una questione (quindi, vedi, poi alla fine le cose sono due). E' vero, la prepotenza è spesso di genere, però a me, che sono una donna, ha fatto sempre molta paura anche il bullismo femminile, quei gruppi chiusi e sferzanti..

Ecco (e la prossima volta busso..:)

Irene ha detto...

Boh, a me le donne sono sempre sembrate un po' troppo estranee. Sferzano e criticano intorno ad argomenti a me in buona parte alieni, a cui quindi sono abbastanza impermeabile. Però non ho molta esperienza, perché dato che compagnie=bullismo, nella mia vita, alla fin fine non ho mai avuto modo di frequentare gruppi numerosi di amici/amiche; conosco molto bene la possessività delle amicizie intime, i tradimenti e le inevitabili tragedie, ma per nulla le dinamiche di gruppo.

perdiqualsole ha detto...

Anche io ricordo meglio il bullismo femminile. Ricordo, a scuola, la cattiveria delle bambine. I maschi erano più dispettosi ma, a modo loro, più semplici. Le femmine erano più capricciose, sottili, più profonde, nel loro bullismo, e nel gruppo pretendevano un'esclusività maggiore, "se stai con noi con quella non devi più parlare!", cose così. I maschi erano più ingenui e grossolani, più egocentrici, meno bravi a gestire e a creare una complicata rete psicologica nel gruppo. Mi sento di certo una persona danneggiata, non solo dal bullismo, ovviamente, che fu solo la conseguenza d'altro. E a lungo sono stata una spugna ossessiva appiccicata alle mie fonti d'amore-nonamore. Ho dovuto imparare che ero una persona separata da i miei oggetti d'amore Che esistevo anche al di là di quello spazio di fusione maternale. Quella distanza e separazione mi ha permesso di incontrare l'altro. prima usavo l'altro per vivere me stessa. Per sostanziare me stessa. Per esistere attraverso proiezioni di me sull'altro. Attraverso la differenziazione di me dall'altro ho imparato ad amare e a essere libera. In realtà poi solo un po'. Pochissimo credo. Ma meglio di prima, prima era finzione e menzogna continua. Non dico che ora ci sia completa autenticità. Un po'. Forse.